Karate-do kurofune: la nave nera del karate-do

Karate-do Kurofune

In Karate by Marco FortiLeave a Comment

QUINTA PARTE

CW: Patrick, posso chiederti se hai scritto qualcosa a riguardo delle reali applicazioni fisiche del Karate-do?
PM: Certo, ho scritto molto in passato riguardo alle applicazioni fisiche del Karate-do, ma alla fine ho capito che sarebbe stato più importante focalizzarsi sui precetti storici e filosofici che stanno alla base delle forme dell’arte. Ancora, le applicazioni fisiche delle karate waza (tecniche di karate) possono essere considerate argomento assai confuso tutt’oggi, soprattutto se si considera il fatto che molti sembrano soddisfatti delle loro fidate combinazioni calcio frontale e pugno opposto. Inoltre non manca il materiale scritto sulle arti da combattimento pubblicato da persone ben più qualificate di me.
Tutti possono imparare a combattere, non è poi così difficile, ed io dubito seriamente che i miei semplici consigli possano penetrare la giungla del protezionismo politico che ammanta il nostro ambiente. L’aderenza ai principi sui quali si basa la tradizione è tutto ciò di cui si occupa il Karate-do (la via del Karate). C’è un messaggio ben più importante del colpire con pugni e calci che può essere appreso dal Karate-do. Secondo la mia esperienza, buona parte di coloro che apprezzano il karate moderno sono in qualche modo connesse all’ambito competitivo, e quelle stesse persone non sono interessate agli aspetti metafisici quanto lo sono all’aspetto meramente fisico. L’affascinante e gratificante attività competitiva, scopo del karate sportivo, ed i veri valori sui quali si basa il Karate-do sono però fondamentalmente differenti.
Sono profondamente convinto che se si riesce a superare le distrazioni legate all’ego, la necessità di violenza fisica può essere ridotta a pura eventualità. Più semplicemente, è l’ego che guida le persone verso i problemi. Il Karate-do è un microcosmo della cultura inflessibile nella quale si è sviluppato, un percorso nel quale è stato giapponesizzato. Chi realmente comprende il Karate-do, rispetta il “wa” (l’ininterrotta dimostrazione della prontezza a sacrificare gli interessi personali per il bene della tranquillità comune) e prova sincera gratificazione personale nel coltivare l’armonia, sia dentro che fuori.
Questo è un concetto che si osserva molto raramente nelle culture occidentali, ma è una vera e propria pietra angolare nella società giapponese. Quando non si riesce ad andare oltre i risultati immediati dell’allenamento fisico, il Karate-do rimane esclusivamente un’occupazione ricreativa. Catturato dall’essenza dell’introspezione, il Karate-do diventa un affascinante veicolo di crescita interiore attraverso il quale si ottengono indiscutibili riconoscimenti personali.

CW: Scusa Patrick, non intendo distoglierti dall’argomento, ma potresti spiegare brevemente in cosa consiste la tua teoria sull’applicazione fisica del Karate-do? Sembra esserci un crescente interesse su quello che viene definito attacco ai punti vitali, chiamato anche dim mak, tocco della morte, e la sua relazione con i kata. Potresti esprimere i tuoi commenti su questo settore astratto del karate?
PM: Sì, mi fa piacere trattare l’argomento, sebbene si possa trovare un resoconto molto più dettagliato di questo fenomeno nella mia traduzione del Bubishi. Prima di tutto attaccare i punti vitali del corpo umano viene definito generalmente in giapponese come kyusho-jutsu, e non è strettamente limitato alla pratica del Karate-do. Kyusho-jutsu è un termine generico che si trova in molte tradizioni del combattimento antiche e moderne: semplicemente rappresenta i principi su cui si basano le tecniche. Un nervo, un’arteria oppure un organo traumatizzato non sa, e gli interessa poco sapere, in che modo è stato ferito. Per questo motivo preferisco riferirmi ai principi, lasciando ad altri la preoccupazione di definire a quali gruppi politici appartengano.
Ho imparato dal mio sensei che i principi sui quali si basano le sottomissioni combattive sono universali, le sole differenze riguardano le diverse interpretazioni e le opinioni personali.
I principi su cui si basa il combattimento corpo a corpo non variano, al contrario delle personalità, per cui sono quei principi che vale la pena studiare. Il resto dipende interamente dalle esigenze del proprio fisico e della propria personalità.
Nella sua illuminante dissertazione (alla Università del Budo in Giappone, nel 1990) sull’evoluzione del Buddismo Zen e dei suoi effetti sulla cultura giapponese, Suzuki Kakuzen Sensei, descrisse adeguatamente come le variazioni nel comportamento umano (personalità/attitudini) furono le cause della scissione in diverse scuole dello Zen. C’è solo un messaggio, disse Suzuki, tuttavia ci sono diversi metodi per insegnarlo. Un kotowaza (proverbio) popolare usato da uomini del budo afferma: “Molti sentieri portano alla cima della montagna, ma una sola luna può essere vista da coloro che ne raggiungono la sommità”.
Con un numero limitato di modalità con cui colpire con pugni e calci ma con miriadi di differenti interpretazioni si può concludere che, oltre alle forze culturali giapponesi, siano stati prevalentemente i personalismi individuali a determinare i fattori determinanti nello sviluppo di specifiche metodologie didattiche o stili nel karate.
Ho ricevuto recentemente una lettera da un collega che rispetto profondamente. Come molti di noi, egli è convinto che quando il karate venne introdotto in occidente era aspettativa comune degli stranieri sapere chi fosse il padre del karate. In maniera simile a quello che il dottor Kano era per il Judo o Ueshiba per l’Aikido, la Nihon Karate Kyokai (JKA) ebbe al tempo la forza politica per coordinare una campagna pubblicitaria per promuovere l’immagine di Funakoshi Gichin come il “padre del Karate-do moderno”.
Chi conosce la storia del Karate-do moderno sa che l’arrivo dell’arte nella madrepatria giapponese può essere ricondotto agli sforzi di non meno di quattro Uchinanchu (Okinawensi): Motobu Choki, Funakoshi Gichin, Mabuni Kenwa, e Miyagi Chojun. Tuttavia, pur forti di questa consapevolezza, è altrettanto importante comprendere che non furono solo questi quattro uomini ad avere avuto la responsabilità di come l’arte si è sviluppata. Ci furono dozzine di altri uomini responsabili della diffusione, della crescita e della direzione presa dal Karate, per non parlare delle forze influenzatrici del militarismo giapponese, della pressione dei rivali ed infine dal Dai Nippon Butokukai. Ad ogni modo, questo argomento potrebbe facilmente essere preso come base per una fiction televisiva e forse sarebbe davvero meglio lasciarla a questo.
La mia teoria sull’uso del Karate-do come metodo unico di autodifesa si è sviluppata da una combinazione di esperienze pratiche e ricerche estensive che ho condotto negli anni in luoghi quali Fuzhou, il tempio di Shaolin, Okinawa, ecc…
Le tradizioni del combattimento civile, diversamente dai metodi insegnati ai militari professionisti, non vennero sviluppate per essere utilizzate sul campo di battaglia, in un ambito competitivo o per qualcosa di così insulso come un confronto legato solo all’ego (in cui si potrebbe semplicemente andare via e invece ci si sente costretti a rimanere e combattere).
I principi dell’autodifesa civile, come sono usati nel Karate-do, vennero dapprima sviluppati per essere usati contro chi si avvicinava con intenti minacciosi nel caso in cui la vittima designata non avesse la possibilità di evitare l’attacco violento. In effetti questi principi di autodifesa funzionano meglio contro attaccanti troppo sicuri di sé e ignari delle abilità della vittima.
Sotto questa luce, l’applicazione fisica del quanfa (kenpo in giapponese) – dato che il karate è il quanfa cinese o gongfu, nella forma sviluppata ad Okinawa – diventa più semplice da capire ed apprezzare. È sulla base di questa comprensione che vorrei rivelare la mia teoria sull’uso del Karate-do. Per supportare tale teoria vorrei fornire ai lettori la seguente analisi e dir loro che, se sono interessati ad approfondire il Karate-do oltre al mero aspetto fisico, allora dovranno anch’essi, presto o tardi, fare i conti con il valore della ricerca accademica.
Un antico kotowaza che descrive l’importanza dell’equilibrio nell’allenamento si legge “Bun Bu Ryo Do” e ricorda al praticante come l’assimilazione filosofica e l’introspezione protratta siano necessarie per bilanciare il condizionamento austero.
Nel suo libro “Karate-do Kyohan”, Funakoshi Gichin scrisse «cercare il vecchio significa comprendere il nuovo. Il vecchio e il nuovo sono solo questioni di tempo, In tutte le cose dobbiamo avere una mente chiara. La ‘Via’: chi la trasmetterà in maniera corretta?»

La capsula storica dello studio dei punti vitali
Uno dei più importanti meccanismi istintivi dell’uomo, come per gli animali selvatici, è la sopravvivenza. E proprio come accade agli animali, quando la sopravvivenza di un uomo è minacciata e gli sono precluse possibilità di fuga, l’istinto basilare è di combattere. Tuttavia, a differenza degli animali, l’uomo non ha a sua disposizione armi difensive quali forza, velocità, artigli o denti aguzzi e si è sempre dovuto basare su ingegno e adattabilità. Così l’uomo copiò molti dei movimenti degli animali usando parti del corpo come armi.
La conoscenza acquisita durante scontri violenti ha fornito le basi per estrapolare e approfondire tecniche più sofisticate. Tali scoperte venivano trasmesse dal capo villaggio ai suoi guerrieri, dal maestro all’allievo, dal padre al figlio e dalla madre alla figlia, dimostrando l’immensa considerazione che di generazione in generazione si attribuiva alle modalità efficienti di autodifesa.
Naturalmente le metodologie di autodifesa, indipendentemente dal luogo in cui si sono evolute, vennero avvolte da un ferreo rituale di segretezza in modo da celarne le tattiche. I diversi metodi difensivi, influenzati sia dal clima che dalla posizione geografica, si intrecciarono con i costumi locali, la lingua, i rituali, l’etichetta, il vestiario e, spesso, anche con ideologie metafisiche.
Quindi, quando l’uomo iniziò ad espandere i confini dei suoi domini, i metodi nativi di autodifesa subirono influenze esterne e questo processo portò alla creazione e all’evoluzione di una miriade di tradizioni eclettiche. Forse la cultura che maggiormente influenzò la crescita e la direzione delle tradizioni di autodifesa delle nazioni confinanti fu quella del cosiddetto Regno di Mezzo (Zhōngguó), cioè la Cina. Durante il periodo tumultuoso della dinastia Zhou (1045-256 a.C.) i taoisti lasciarono le città violente e si stabilirono in santuari immersi nella pace delle montagne circostanti. I taoisti cinesi, noti come eremiti delle montagne o “immortali delle montagne”, vivevano, fin dai tempi antichi, in armonia con la natura, facevano duro esercizio fisico e praticavano forme di guarigione naturale quali agopuntura ed erboristeria.
Prima della costruzione del monastero di Shaolin, durante l’epoca della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), un eminente medico di nome Hua Tuo (141-208) sviluppò un metodo di gongfu a scopi terapeutici, basato sul movimento di cinque animali: il cervo, la tigre, la scimmia, la gru e l’orso. Hua Tuo, studioso delle tradizioni del combattimento e profondamente influenzato dagli eremiti taoisti delle montagne, concluse che l’esercizio equilibrato, lo sviluppo spirituale e abitudini alimentari intelligenti fossero strumentali allo sviluppo di uno stile di vita salutare.
Nel corso dei secoli immediatamente successivi, un’infinita schiera di taoisti e medici si dedicarono al miglioramento della scienza dell’agopuntura, scoprendo l’esistenza di percorsi dell’energia interna e collegandoli alle varie funzioni fisiologiche.
Dall’osservazione di specifiche aree ipersensibili in occasione della presenza di determinate malattie, i taoisti catalogarono punti ricorrenti che potevano essere collegati a disfunzioni organiche.
Questi punti, che si trovavano sempre su determinati percorsi, potevano così essere utilizzati per diagnosticare l’interessamento di un organo in differenti malattie. I percorsi che collegavano i punti ad organi specifici divennero noti come meridiani.
A Xi Yuan, un eminente medico cinese del tredicesimo secolo, si devono notevoli progressi nella scienza medica. Egli scoprì che era possibile migliorare lo stato di salute di un paziente malato stimolando i punti di un determinato meridiano. Xi Yuan fu tra coloro che scoprirono che il sistema energetico, e quindi gli organi interni, erano influenzati dai quotidiani cicli del sole e della luna.
Misurando le sue ricerche in accordo con gli shichen (12 intervalli di due ore ciascuno), Xi Yuan determinò precisamente in quale momento del giorno i 12 meridiani principali esprimevano i periodi di maggiore e minore energia.
Annotando meticolosamente i risultati delle sue ricerche, egli scoprì centinaia di punti vitali, molti dei quali non potevano essere trattati con aghi e altri che potevano indurre grande dolore o addirittura paralisi o morte. Queste zone vennero definite punti proibiti. Xi Yuan documentò oltre 350 punti vitali e tracciò grafici e diagrammi che li illustravano.
Zhang Sanfeng, illustre artista marziale ed esperto agopunturista del tardo tredicesimo secolo (non è certo che sia effettivamente vissuto o sia un personaggio creato dalle leggende popolari), stando alle cronache avrebbe esplorato e annotato i risultati delle sue analisi sui punti vitali. Affascinato dalle tradizioni del combattimento ed esperto negli stili duri di Shaolin, Zhang continuò la sua ricerca personale verso la forma ideale di autodifesa, quella che gli avrebbe consentito di soggiogare una vittima con uso minimo della forza, traumatizzando parti isolate del corpo umano. Nel corso di tali analisi Zhang e i suoi collaboratori scoprirono che colpire specifici punti vitali determinava in altre zone un aumento di vulnerabilità anche ad attacchi meno potenti, mentre altri punti dimostravano effetti critici se premuti, stretti o traumatizzati. Secondo la tradizione popolare, per confermare le sue ipotesi, Zhang effettuò esperimenti sia su animali che, corrompendo le guardie carcerarie, su criminali condannati a morte.
A conclusione della sua ricerca, si dice che Zhang Sanfeng, analogamente a quanto fatto dagli eremiti taoisti, abbia creato una serie di posizioni consecutive chiamata quan (kata in giapponese), basata sulla sua conoscenza del gongfu di Shaolin, attraverso cui trasmettere i principi della sua teoria dei punti vitali (dian xue in cinese mandarino, dim mak in cantonese). Le applicazioni, celate dalle posizioni astratte della forma, venivano svelate solo ai suoi allievi più fidati.
Dalla metà del periodo della dinastia Ming (1368-1644), con a disposizione i risultati di generazioni di analisi empiriche e una profonda conoscenza di questi punti di vita e morte, gli agopunturisti svilupparono un efficace metodo di autodifesa. Per poter applicare le relative tecniche, alcuni tenevano aghi da cucito nelle tasche, così da poter rendere inoffensivo o addirittura uccidere un eventuale assalitore pungendo i punti vitali. Altri legavano insieme cinque aghi avvelenati (nella forma del fiore di prugno a cinque petali) e si riferivano ad essi con il termine “aghi del fiore di prugno”, conservandoli in un tubo fatto di bambù per poterli usare in caso di bisogno. Alcuni allievi preferivano colpire i punti vitali con pennelli da scrittura o ventagli di ferro o bambù. Tuttavia, questi oggetti utilizzabili anche come armi erano spesso scomodi da trasportare e, per questo, pochi ne divennero esperti utilizzatori.
Un altro taoista della dinastia Ming, Feng Yiyuan, sviluppò un metodo per attaccare i punti vitali proibiti usando solo le mani vuote. Feng, che si dice sia stato maestro di Zhang Sanfeng, scoprì 36 punti del corpo umano che – se premuti, stretti o traumatizzati in modi specifici – producevano notevoli danni. Feng studiò anche come le fasi giornaliere del sole e della luna influenzavano la circolazione sanguigna.
Per questo, quando alcune aree venivano premute, strette o traumatizzate nei momenti del giorno in cui la circolazione era più intensa, i punti vitali si rivelavano più vulnerabili a danni che potevano causare un numero notevole di disordini interni variabili dal dolore intenso alla paralisi, dalla perdita di conoscenza per shock neurologico alla trombosi (ostruzione di vaso sanguigno). Tali danni, senza trattamento, potevano danneggiare l’intero sistema circolatorio, causare il malfunzionamento di un organo o addirittura portare a un passo dalla morte.
Feng usò questo metodo per combattere contro monaci, generali e altri taoisti e non venne mai sconfitto. Trasmise il suo metodo a diversi allievi che, a loro volta, lo diffusero. I principi del colpire i punti vitali di Feng Yiyuan, oggetto di ricerca da parte di molti, vennero ben presto ammantati da un rituale ferreo di segretezza.
I 36 maggiori punti vitali presi in esame da Feng Yiyuan erano catalogati in nove punti che causano morte, nove punti che causano arresto neurologico, nove punti che causano intenso dolore e nove punti che portano alla paralisi. I principi di Feng Yiyuan sui punti vitali sono tra l’altro delineati nel Bubishi.
Nel 1638, durante gli ultimi anni della dinastia Ming, Chen Yuanbin (1587-1671 [o 1674], Chin Genpei in giapponese), un maestro cinese nella lavorazione della ceramica, arrivò a Nagasaki (Giappone) per insegnare la sua arte al castello del Daimyo (signore) Owari. Chen, esperto anche nell’arte di afferrare (chin na), e colpire i punti vitali, insegnò questa disciplina a Fukuno Shichiroemon, Miura Yojiemon e Isogai Jirozaemon che in seguito fonderanno proprie scuole. Per quanto Chen Yuanbin non possa essere ritenuto il padre del jujutsu, di certo i suoi insegnamenti spinsero i tre allievi giapponesi ad aprire le loro scuole. Da quel momento in poi, tutte le scuole di jujutsu iniziarono ad utilizzare colpi ai punti vitali, una pratica che oggi però solo alcune scuole di jujutsu dimostrano di comprendere.
Orde di ufficiali della destituita dinastia Ming cercarono rifugio nelle nazioni e isole vicine. Molti si rifugiarno in Annam (vecchio nome del Vietnam), Siam (vecchio nome della Tailandia), Burma (vecchio nome della Malesia) e Corea mentre il Regno delle Ryukyu (che all’epoca era stato tributario dell’Impero Cinese) e Taiwan divennero santuari ideali per i combattenti cinesi che volevano liberare la loro nazione. Sapere quanto delle tradizioni cinesi di combattimento civile sia stato trasmesso in questi paesi rimane oggetto di intensa curiosità.
Nel corso della dinastia Qing (1644-1911) il grande studioso Huang Zongxi e suo figlio Huang Baijia appresero i segreti del colpire i punti vitali proibiti dall’eminente maestro di gongfu Wang Zhengnan. Entrambi furono indirettamente responsabili della trasmissione di tale conoscenza al leggendario Tempio di Shaolin della montagna dei nove loti (Jiulian Shan) del Butian, nella provincia del Fujian.
Il Tempio di Shaolin della montagna dei nove loti, spesso descritto come tempio Shorei, ebbe un enorme impatto sulla crescita e la direzione delle tradizioni del combattimento civile della Cina, a sud del fiume Chang, nel periodo della dinastia Qing. Da quel periodo in avanti, le annotazioni contenenti i segreti dei “colpi ai punti vitali” e altre conoscenze correlate, vennero trasmesse di generazione in generazione grazie a libri come il Bubishi.
Dal tempo in cui la scuola del Tempio Shaolin si stabilì sul monte Jiulian, il numero di punti vitali presi in considerazione come bersagli per attacchi con mani e piedi aumentò a 108 e i monaci di Shaolin crearono nomi speciali per ogni tecnica. Allo scopo di mantenersi in buona salute e memorizzare sia le tecniche difensive che i punti vitali, vennero collegate tecniche di attacco continuative (identificate con termini specifici in settori determinati quali lotta a terra, boxe del monaco, pugno del drago) per formare gruppi di sequenze ai quali vennero attribuiti nomi quali; 13 (Seisan), 18 (Seipai), 24 (Niseishi), 28 (Nepai), 36 (Sanseru), 54 (Useishi), 108 (Beichurrin), ecc…
Spesso i gruppi di sequenze presero nomi astratti che derivavano dai nomi dei loro creatori, dalle località di origine, dalle intenzioni di attacco o da caratteristiche specifiche del quan.
Tutti i quan promuovevano la salute fisica ed il benessere mentale oltre a servire quale forma di Zen motorio, cioè di meditazione in movimento. Fisicamente ogni posizione nel quan rappresentava una risposta difensiva ad uno scenario specifico che poteva consistere in controlli articolari, strangolamenti, atterramenti, proiezioni, tecniche di mano o gamba, corpo a corpo, uscite da prese, lotta a terra, pressioni o strette o traumatizzazioni di punti vitali proibiti, colpi diretti a danneggiare gli organi interni non protetti dalla struttura scheletrica, colpi diretti a danneggiare vasi sanguigni, colpi diretti a traumatizzare plessi nervosi e combinazioni varie di tali tecniche.
La pratica dei quan insegnava come scoraggiare un aggressore dal proseguire nell’attacco ferendolo, facendogli perdere conoscenza o addirittura uccidendolo. Studiare i quan divenne metodo accettato attraverso il quale trasmettere le applicazioni fisiche segrete dell’autodifesa.
Nello sforzo di tenere sotto controllo quei sostenitori fedeli che penetravano i segreti mortali contenuti nei quan, le varie scuole di gongfu abbracciarono gli insegnamenti filosofici dei saggi e vennero profondamente influenzate dalle ideologie taoiste, confuciane e buddiste.
Dopo la “rivolta di boxer” (1900) e la caduta della dinastia Qing nel 1911, lo studio dei colpi ai punti vitali e, in generale, lo studio delle arti da combattimento, persero molta della loro importanza.
Lo sviluppo e la diffusione dell’uso delle armi da fuoco aveva ridotto l’efficacia dell’autodifesa corpo a corpo. Inoltre la crisi economica e le responsabilità collettive sorte con le nuova Repubblica Cinese (1912-49) lasciarono pochissime persone con soldi e tempo necessari per approfondire seriamente le tradizioni del combattimento. Dopo questo periodo la maggior parte di coloro, anche se non tutti, che studiavano le tradizioni del combattimento lo facevano essenzialmente per interesse ricreativo, interpretazione artistica e/o miglioramento personale. Per questo motivo sono davvero poche oggi le persone che conoscono realmente i segreti insiti nell’arte del colpire i punti vitali.

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